Boule de neige, a Empoli Nasce un nuovo itinerario di arte pubblica e rigenerazione urbana

Un percorso tra arte, luce e identità collettiva. L'inaugurazione domenica 9 alle 17.
Data:

04/11/2025

Licenza sconosciuta

Descrizione

Empoli, 4 novembre 2025 – Boule de Neige è il nuovo progetto promosso dal Comune di Empoli e curato da Sergio Risaliti e Antonella Nicola, che porta l’arte contemporanea nel cuore della città per rinnovarne lo sguardo e gli spazi. A partire da domenica 9 novembre 2025 alle ore 17.00 fino a domenica 15 febbraio 2026 un itinerario culturale urbano prenderà forma nel centro storico, con l’obiettivo di valorizzare luoghi dimenticati, stimolare nuove percezioni del territorio e favorire la partecipazione collettiva.
I sei artisti Marco Bagnoli, Francesca Banchelli, Chiara Bettazzi, Marcela Castañeda Florian, Giovane Ceruti, David Reimondo saranno protagonisti di interventi site-specific che trasformeranno il centro di Empoli in un dispositivo poetico e narrativo, capace di intrecciare memoria, paesaggio urbano e immaginario collettivo.

Il sindaco di Empoli ha affermato che le due zone protagoniste del progetto, via Spartaco Lavagnini e piazza Madonna della Quiete, entrano di diritto in un nuovo itinerario culturale urbano con un linguaggio contemporaneo, coraggioso, che mescola stimoli diversi per stupire visitatori, residenti e curiosi. Sono due zone che dall'avvio dell'attuale amministrazione stanno tornando alla ribalta con eventi, rendendo vitali zone che venivano considerate marginali. Una delle strategie è quella dell'arte che si presta a modellare il paesaggio urbano per dare nuova luce a queste zone.
L'assessore alla cultura ha sottolineato l'esistenza di un gruppo di artisti variegati e dagli stili differenti per creare sorpresa e stupore, incrociando diversi tipi di lavori (dalle proiezioni alle installazioni artistiche). Il volto urbano di Empoli ben si presta alle contaminazioni, con la consapevolezza di agire sia su luoghi già noti e apprezzati come il chiostro del Museo della Collegiata per passare a strade meno battute del centro come via Lavagnini. È la prima volta che un progetto si sviluppa così profondamente in città e siamo felici di poter sperimentare con l'aiuto di voci dall'Italia e dal Mondo.

L'assessora alla sicurezza ha aggiunto che quello di Boule de Neige è un intervento innovativo, che scommette sulla capacità dell'arte di curare e rigenerare gli spazi, ma anche sul desiderio di fare del centro storico un bene comune, in cui si incontrano gli interessi dei proprietari dei fondi sfitti, degli abitanti e dell'amministrazione, per dare nuova luce al centro storico grazie alla mano e all'ingegno di giovani artisti. L'assessora ha rivolto anche un ringraziamento sincero alle persone che hanno messo a disposizione i fondi non utilizzati, alla Regione Toscana che ha finanziato il progetto Hugo Luci Accese Sulla città, agli educatori di strada, ai dipendenti del Comune e a tutti coloro che hanno lavorato con l'aministrazione in questi mesi tenendo insieme cura, rigenerazione e sicurezza urbana. Questo con l'obiettivo di trasformare luoghi in cui spesso si affretta il passo per raggiungere il centro storico, in spazi in cui si rallenta per guardarsi intorno.

È una bella collaborazione tra arte contemporanea e amministrazione pubblica, un progetto di rigenerazione urbana che parte dall’analisi di un contesto locale in cui si è sentita la necessità di restituire energia creativa e la possibilità di creare dialogo e condivisione in un settore della città che ha vissuto, negli anni, un cambiamento importante – ha detto Sergio Risaliti, direttore del Museo Novecento di Firenze e curatore del progetto Boule de Neige. – I lavori degli artisti riaccendono curiosità e desiderio nei confronti di vetrine chiuse da tempo, segno dell’interruzione di un ciclo commerciale, e lo fanno non attraverso i canoni tipici del voyeurismo consumistico, ma attraverso quelli dello stupore e della meraviglia poetica e artistica. Le vetrine oscurate cancellano il tempo precedente per aprirsi, attraverso oculi, a delle scatole che lasciano penetrare lo sguardo verso piccole wunderkammer, camere delle meraviglie, boule de neige. È appunto lo stupore e la meraviglia che tornano a essere protagonisti, restituendo al visitatore la possibilità di scoprire un tempo altro: un rallentamento, un respiro dello sguardo che risveglia anche la dimensione poetica dell’infanzia, quando le cose del mondo ancora non servivano in termini utilitaristici, piuttosto a creare mondi incantati e fantasiosi che suscitavano emozioni e attivavano la libera immaginazione. Due opere sono state installate altresì in due luoghi speciali per storia e funzione. La facciata della chiesa della Madonna delle Quiete. La seconda opera la si troverà collocata al centro del chiostro della Collegiata di San Andrea. Qui il confronto si arricchisce di un dialogo con la spiritualità, la cultura, le tradizioni empolesi. Un ringraziamento va all’amministrazione, all’assessore, agli artisti, alle aziende e a tutti coloro che hanno contribuito e reso possibile il progetto. Voglio anche ringraziare per la disponibilità dimostrata ad accogliere la mongolfiera di Marco Bagnoli nel Chiostro del Museo della Collegiata di Sant’Andrea, il parroco decano Don Guido Engels".

"In tutte le epoche, dall’antichità ad oggi, sia in occidente che in oriente, l’arte è sempre stata il respiro vitale delle società più evolute, il motore della crescita collettiva - ha detto Antonella Nicola, co-curatrice della mostra -. L’arte non riguarda dunque solamente il campo degli ideali estetici che caratterizzano e differenziano le diverse epoche storiche, ma è un nutrimento profondo per corpo e anima, una forza dirompente che, se lasciata agire, è capace di trasformare e ricomporre le fratture dell’esistenza, sia individuale che collettiva. L’arte è il cammino dell’anima verso la libertà - diceva Hermann Hesse - non un lusso o un intrattenimento, ma un bene essenziale per la salute e il benessere di ogni comunità, un terreno fertile per la crescita intellettuale, emotiva e spirituale. In tal senso vanno vissute e partecipate le opere degli artisti coinvolti nel progetto condiviso con l’Amministrazione Comunale di Empoli.

Il titolo del progetto, Boule de Neige, rimanda proprio a quell’oggetto iconico — oggi celebre souvenir — nato dall’ingegno di Erwin Perzy, produttore di strumenti chirurgici nell’Austria di fine Ottocento. Da oltre un secolo, la boule de neige continua a incantare per la sua capacità di racchiudere in una sfera trasparente un mondo in miniatura, sospeso tra realtà e immaginazione. Come tutti sanno, la magica sfera si trasforma in un paesaggio innevato con un semplice gesto, si accende un momento di sospensione, un piccolo incantesimo visivo in cui il tempo si ferma. È un microcosmo poetico che evoca sogni, ricordi e nostalgie, capace di risvegliare emozioni intime e di trasportarci altrove.
Come una boule de neige anche l’arte si manifesta come un rito intimo e contemplativo, che invita a soffermarsi, contemplare e meravigliarsi. Boule de Neige propone un percorso di scoperta che parte dal centro storico di Empoli e si apre a nuove letture del paesaggio urbano, trasformando la città in un luogo di incontro tra memoria e contemporaneità.
Il progetto nasce da un’accurata mappatura degli spazi museali, cittadini e privati commerciali dismessi nel centro di Empoli e si propone come modello replicabile di rigenerazione urbana attraverso le pratiche artistiche contemporanee. Gli artisti coinvolti, già attivi nel campo dell’arte pubblica e del dialogo con il contesto sociale, hanno ideato le opere in seguito a sopralluoghi e interazioni con le vie e le piazze di Empoli, dando vita a un processo partecipato e profondamente legato all’identità locale. Il nuovo itinerario culturale è un invito a riscoprire la città con occhi diversi, attraverso l’arte, la riflessione e l’incontro. Un progetto che intende restituire centralità e dignità a luoghi dimenticati, promuovendo al tempo stesso una visione collettiva e poetica della città. L’obiettivo della valorizzazione urbana del centro di Empoli, si combina con la funzione propedeutica ed educativa che ha sempre avuto l’arte a favore delle collettività.
Gli artisti coinvolti sono stati chiamati a confrontarsi con gli spazi storici e simbolici di Empoli, reinterpretandoli attraverso interventi site-specific. Marco Bagnoli e David Reimondo firmano due installazioni ambientali collocate in luoghi di particolare valore: il chiostro del Museo della Collegiata di Sant’Andrea e la Piazzetta Madonna della Quiete, adiacente a Piazza Farinata degli Uberti.
Francesca Banchelli, Chiara Bettazzi, Marcela Castañeda Florian e Giovane Ceruti intervengono invece lungo Via Spartaco Lavagnini, animando spazi commerciali inattivi e la via stessa con opere che stimolano lo sguardo e la partecipazione. Le loro installazioni invitano a riscoprire il quartiere come luogo vivo e creativo, in cui la quotidianità si intreccia con la dimensione poetica e immaginativa dell’arte contemporanea.
Come una boule de neige che custodisce un paesaggio immobile dove la neve cade lenta, anche queste vetrine offrono un microcosmo poetico, un tempo sospeso dove la realtà esterna si dissolve e l’atto dell’osservare diventa esperienza intima, quasi magica. Le vetrine oscurate diventano così dispositivi di visione: ci costringono a rallentare, a mettere a fuoco, a penetrare con lo sguardo uno spazio separato e protetto, rivelando il potere dell’arte di custodire e al tempo stesso liberare senso e meraviglia liberandosi per una volta dalla fretta e dall’impulso a consumare prodotti effimeri troppo rapidamente.

LE OPERE

Chiostro Museo della Collegiata di Sant’Andrea - Marco Bagnoli
Nel Chiostro di Sant’Andrea, l’artista Marco Bagnoli presenta L’albero rovesciato (Della Luce innata), una delle sue iconiche mongolfiere. La prima mongolfiera realizzata è del 1989 e fu esposta alla Fortezza da Basso a Firenze sempre nel 1989 con questo titolo: L’anello mancante alla catena che non c’è, 1989. Questa struttura simbolicamente richiama l’idea del volo come via spirituale: non una fuga, ma un processo di trasmutazione, in cui l’elemento aria si separa, si rarefà, diventa potenzialità invisibile, intensità interiore.

Bagnoli stesso afferma che la mongolfiera nasce “nell’interstizio tra l’alchimia degli elementi […] È l’esplicitazione […] in cui ci solleviamo da terra e nel sollevamento la perdiamo.”
Il titolo, L’albero rovesciato, allude a un’inversione di prospettiva: non più lo sguardo rivolto al cielo per contemplare le forme celestialmente disposte, ma lo sguardo rivolto alla terra come cielo, dove ritrovare nella materia una luce inaspettata – la Luce innata.

Il processo che Bagnoli attiva conduce lungo un sentiero intimo, di disvelamento e risveglio, fino al ritrovamento del nucleo originario, e della luce intima e interiore. Lo spettatore è chiamato a partecipare a questo processo.
Le opere di Bagnoli, comprese le ‘mongolfiere’, sono soglie: non oggetti chiusi o semplici manifestazioni estetiche, ma punti di transizione verso una dimensione più profonda. “La mongolfiera è allora una sorta di autoritratto spirituale in cui il corpo si svuota della materia, assume consistenza eterea, disancorata da terra, svincolata dal superfluo” – affermò il curatore Sergio Risaliti in occasione dell’installazione AttoRitratto. Opera Scenica alla Stazione Leopolda di Firenze (2014). La materia fisica dell’opera perde così la sua centralità: la verticalità si alleggerisce, si trasforma; l’opera diventa corpo spirituale che cerca distanza dal peso.
Le ‘mongolfiere’ di Bagnoli dialogano con lo spazio, la luce e la percezione del corpo e del respiro di chi guarda. Non sono oggetti estetici, ma varchi che invitano al dubbio e al meraviglioso, che mettono in discussione i confini del reale e del visibile. Il ribaltamento di prospettiva si manifesta in alto, nella punta a goccia specchiante; in basso, nel vaso che, fin dall’origine, contiene tutte le storie e tutti i canti. Ombre e luci, suoni e gesti – elementi costitutivi delle opere di Marco Bagnoli – proiettano nello spazio e nel tempo presente le premesse di una dimensione più sottile e vasta, amplificando la relazione tra materia e spirito.

Le mongolfiere diventano così archetipi del viaggio interiore: leggere come nuvole, ma sospese sul vuoto, sull’aria – il loro doppio invisibile.

Marco Bagnoli (Empoli, 1949)
La pratica artistica di Marco Bagnoli, attivo dalla prima metà degli anni Settanta, si sviluppa attraverso disegno, pittura, scultura e installazione ambientale e sonora. La sua ricerca fonde elementi estetici e scientifici, combinando teorie del colore, visione, iconologia e saperi antichi in un linguaggio contemporaneo e stratificato. L’opera diventa così spazio di riflessione e conoscenza, dove convivono razionalità e intuizione. Bagnoli indaga lo spazio e il tempo come esperienze fluide, dando forma a una poetica complessa e visionaria. Le sue installazioni, le sue opere, invitano a percorsi di pensiero ramificati e profondi, offrendo un’esperienza immersiva che induce lo spettatore non solo a fermarsi e guardare, ma a oltrepassare, a varcare una soglia.
L’artista ha esposto in numerose istituzioni di rilievo, sia in Italia che all’estero, con importanti mostre personali che ne hanno consolidato il ruolo nel panorama dell’arte contemporanea, tra cui alla Biennale di Venezia (1982, 1986, 1997), a documenta di Kassel (1982, 1992) e al Sonsbeek di Arnhem (1986); alle sue personali presso prestigiose istituzioni artistiche e architettoniche quali De Appel, Amsterdam (1980 e 1984), Centre d’Art Contemporain Genève (1985), Musée Saint-Pierre Art contemporain, Lyon (1987), Magasin, Centre National d’Art Contemporain, Grenoble (1991), Castello di Rivoli (1992), Centro per l’Arte Contemporanea Luigi Pecci, Prato (1995), IVAM, Centre del Carme, Valencia (2000), Mart, Rovereto (2002), České Muzeum Výtvarných Umění, Praha (2009), Civico Planetario Ulrico Hoepli, Milano (2011), Madre, Museo d’Arte Contemporanea Donnaregina, Napoli (2015), Museo del Novecento, Milano (2022), Chini Museo, Borgo San Lorenzo (2023), National Gallery Chifte Amam, Skopje, la Certosa di San Giacomo, Capri, e la Reggia di Caserta (2024), ai suoi passaggi in grandi musei, dalla Galleria Nazionale d’Ar-te Moderna di Roma, al Centre Georges Pompidou di Parigi, e il National Art Museum of China, Pechino. Nel 1981 occupa con una grande installazione la Villa Medicea La Ferdinanda di Artimino, e da lì in poi inizia una serie di interventi in architetture di grande rilevanza storica e spirituale, come, a Firenze, la Cappella Pazzi (1984), la Sala Ottagonale della Fortezza da Basso (1989), l’Abbazia di San Miniato al Monte (1992, 1994, 2012, 2018/2019, 2020), il Forte di Belvedere (2003, 2017), il Giardino di Boboli (2013), la Stazione Leopolda (2014). È presente con le sue mostre in prestigiose gallerie italiane, Galleria Giorgio Persano, Torino, (1990, 1991, 1996, 2001, 2006, 2024), Galleria Christian Stein, Milano, (2011, 2017, 2022).

Piazzetta Madonna della Quiete, David Reimondo
David Reimondo, firma un intervento luminoso che riflette sul linguaggio e sui contesti culturali, aprendo nuove possibilità di interpretazione dello spazio pubblico. Nell’installazione per la Piazzetta Madonna della Quiete, dal titolo Nuovi Linguaggi Determinano la Nascita di Nuovi Mondi, Reimondo invita a percepire un nuovo sistema di codificazione e pensiero. Sulla facciata della piazza proietta un insieme di grafemi tratti dal suo alfabeto inedito, accanto a parole in lingua italiana. Il testo scelto è stato estratto dai versi della Divina Commedia di Dante, Inferno, Canto X, dedicato a Farinata degli Uberti, il capitano ghibellino che, nel Concilio di Empoli del 1260, si oppose alla distruzione di Firenze e a cui è intitolata la piazza centrale della città.
“Non fiere li occhi suoi lo… vivo ten vai così parlando onesto… che s’è dritto… loquela… volgiti! Che fai? Vedi là… a ciò non… io ch’era d’ubidir…”
L’opera diventa così un invito a rallentare: a sostare, indugiare, prima di procedere. Un invito ad aprire lentamente il campo delle possibilità, abbandonando la razionalità in favore del gioco e dell’intuizione, per imparare a leggere i nuovi codici proposti dall’artista. Un linguaggio “extraterrestre”, forse, ma anche una metafora di condivisione: libero da strutture predefinite, aperto al nuovo, al differente, all’ignoto.
Reimondo apre porte e suggerisce percorsi, accettando la sfida di confrontarsi con ciò che ancora non esiste, non è riconoscibile come codice o schema, non è stato legittimato da stili, mode o convenzioni. Anticipa il futuro e per questo si fa portavoce del cambiamento. Attraverso la luce, il colore e i suoi simboli, l’artista invita il pubblico a interrogarsi su come comunichiamo, su cosa significhi davvero “capire” e su quanto il linguaggio sia condizionato dal tempo, dallo spazio e dalla cultura di appartenenza.
L’installazione diventa così uno spazio di possibilità, dove il significato nasce nuovo, nell’incontro tra segno e osservatore. Il dialogo con la storia, i personaggi e i testi letterari che Reimondo attiva nella piazza mantiene viva la connessione con un passato che ancora plasma la memoria collettiva.
In un’epoca dominata dall’eccesso comunicativo, la sua opera restituisce valore al linguaggio, all’ambiguità e alla pluralità dei codici. La piazza, da luogo di passaggio, torna a essere spazio di incontro, decifrazione e meditazione: un momento di sospensione, in cui riconnettersi con ciò che spesso resta invisibile nelle dinamiche urbane e quotidiane.

David Reimondo (Genova, 1973)
Il lavoro di David Reimondo si concentra sull’individuo, sul recuperare la propria intima soggettività, condizione che può diventare, anche, contributo alla collettività. “L’esperienza è insieme sonora, visiva ed intellettiva e ci appartiene in quanto esseri umani… L’immaginazione non è che un’energia che ci unisce al mondo, costituendo un ponte fra esterno e interno”. Da qui nascono e si sviluppano le tematiche di ricerca di David Reimondo: “Anime”, “Cellule”, “Corpo”, “Interazione” e “Pensiero”, e da quest’ultimo nascono poi due ulteriori campi di indagine: l’Etimografia, le parole che non esistono, e la Cromofonetica, il nuovo modo di scrivere e chiamare foneticamente i colori; i due neologismi creati dall’artista, corrispondono ai sistemi segnico e fonetico da lui inventati e rappresentano il complesso esercizio di de-addestramento culturale compiuto, verso una profonda 'tabula rasa linguistica’. E l’Etimografia è proprio lo strumento che Reimondo sceglie per dialogare con la città di Empoli: “L’Etimografia è il risultato dello sforzo intellettuale nel ridare un nuovo segno grafico e un nuovo suono vocale ai significati delle parole che l’uomo usa per comunicare. Questa azione si concretizza nella produzione di progressivi schizzi a penna cercando di ottenere l’immagine più corrispondente alla mia personale visione del significato posto. Queste azioni, che chiamo “esercizi di de-addestramento culturale”, sono importanti per poter violentare le eredità iconografiche che ci appartengono e trovare la rappresentazione grafica e sonora più somigliante a noi, non in senso distruttivo, ma creativo, per essere più puri e aperti a nuove scoperte, senza nessuna pretesa di invenzione di una nuova lingua da adottare.” (David Reimondo).
Fra le principali mostre in italia e all’estero ricordiamo: Arte alle Corti. Internet Vittoriano, Torino (2024); Cromofonetica, Mazzoleni, Torino (2024); Nessun Dorma, Scuola di Alto Perfezionamento Musicale, Saluzzo (2023); Frammenti di un discorso amoroso, Museo Novecento, Firenze (2019); Il muscolo del pensiero è il cervello, Mazzoleni, Torino (2019); Linea etimografica, Teatro Filodrammatici, Milano (2018); Le parole che non esistono, The Open Box, Milano (2017); Di Meo Gallery, Parigi (2010); Gian Enzo Sperone Gallery, Sent, Svizzera (2009). Numerose sono le esposizioni collettive in musei e gallerie in Italia e all’estero: XNL Aperto 2024, Piacenza, The Shit Museum, Campremoldo (2024); Dialoghi e altri Sguardi. Il Tempo della Comunanza, La Castiglia di Saluzzo (2024); Vis-à-Vis. Ritratti moderni e contemporanei, Musei Civici Palazzo Buonaccorsi, Macerata (2024); Peccioli, Pisa (2021, opera pubblica permanente); Galleria d’Arte Moderna di Torino, Torino (2020); More Than Words, Mazzoleni, Londra (2018); Palazzo Palmieri, Monopoli (2017); The Open Box, Milano (2017); Unicredit Pavilion, Milano (2015); Fondazione Piero Manzoni, Milano (2014); Hôtel des Arts, Tolone, Francia (2013); CoCA Centro d’Arte Contemporanea Znaki Czasu, Toruń, Polonia (2012); Winzavod Centre for Contemporary Art, Mosca (2011); 2nd Malindi International Biennale of art, Kenya (2008); 9th Cairo International Biennale, Egitto (2003); Biennale Méditerranéenne.

Via Spartaco Lavagnini
Via Spartaco Lavagnini diventa il fulcro di una trasformazione all’insegna dell’arte e della cultura. Quattro artisti approdano a Empoli portando il loro bagaglio culturale e poetico e propongono quattro interventi per alcuni spazi commerciali di Via Spartaco Lavagnini. Passeggiando lungo la via, tra le vetrine illuminate dei negozi ancora attivi, emergono alcune vetrine, oscurate con una pellicola nera, che lascano scoprire il loro interno solo attraverso piccoli buchi e aperture che invitano lo spettatore a “guardare oltre”. L’intento è quello di attivare curiosità, meraviglia, stupore, come avviene quando si guarda una boule de neige, quell’oggetto in vetro che crea un microcosmo poetico in cui la neve finta cade lentamente su un paesaggio immobile, di sogno e di reminiscenza. Allo stesso modo, sbirciare da un piccolo foro per scoprire un’opera nascosta trasforma il gesto dell’osservazione in un atto quasi magico, privato e misterioso, dove la realtà esterna si dissolve e lo spettatore entra in un tempo sospeso. Entrambi gli oggetti – la sfera e la vetrina oscurata – ci costringono a rallentare, a focalizzare, a penetrare con lo sguardo uno spazio separato, protetto, insolito. In questo senso, le vetrine si trasformano in dispositivi di visione, strumenti che trasformano la realtà quotidiana in esperienza poetica, rivelando il potere dell’arte di custodire e insieme liberare senso e meraviglia. Un microcosmo poetico, chiuso nel, o dietro al, vetro, che parla all’anima. Allo stesso tempo succede qualcosa di differente: l’osservatore, costretto a guardare attraverso un foro, non ha accesso pieno all'immagine, ma solo a un frammento, a un ritaglio dell’opera, per via dell’utilizzo della pellicola nera che copre l’intera superficie e nega la visione diretta dell’oggetto. La pellicola nera diventa così un velo tra noi e il significato dell’opera, un ostacolo che non solo limita la piena comprensione, ma trasforma la percezione, obbligando lo spettatore a un atto attivo e critico, a una visione che è sempre meditazione, scarto e distanza da qualcosa che c’è, accade, è accaduto e non si può modificare.
Questa modalità di visione fa emergere la consapevolezza che la verità non è mai tutta visibile e lo sguardo deve naturalmente confrontarsi con i concetti e le condizioni di limite, di incompiuto, di sfuggevole. E proprio là, in questo atto di ricerca tra ombra e rivelazione, si attiva il potere trasformativo e rigenerativo dell’arte.
Procedendo da una vetrina all’altra, lungo il tragitto dell’arte, un tappeto di luci colorate, come stelle infuocate o come di un luogo addobbato a festa, accompagna la nostra passeggiata. Tra le luci colorate sopra di noi, scopriamo ancora qualche gesto, una proliferazione di oggetti e immagini lasciate dagli artisti, che, salpando dalla terra ferma e lasciandosi alle spalle lo spazio della vetrina, hanno azzardato muovere qualche passo per raggiungere lo spazio esterno e trovarsi sospesi, fluttuanti tra il cielo e la terra. Lo spazio aereo sopra le nostre teste ci invita ad alzare lo sguardo per un nuovo e diverso incontro con la meraviglia e lo stupore. Il tappeto decorato con piccoli oggetti, gocce riflettenti, ventagli, pupazzi colorati, strisce di carta e manifesti, sonagli e una miriade di luci ci ricorda la fantasmagoria delle feste di paese e del natale, così come dell’albero della cuccagna, degli addobbi casalinghi. Tra gli oggetti che pendono dall’alto appaino però anche delle frasi che attivano riflessioni sul nostro stare al mondo e assieme agli altri, sui valori condivisi e sugli imperativi morali che sono alla base delle nostre società democratiche.

Civico 26, Francesca Banchelli
Al civico 26, Francesca Banchelli presenta Dust to Dust un’installazione che esplora il rapporto tra oscurità e luce come metafora dell’esistenza umana. I visitatori, osservando attraverso i fori sulla vetrina, sono accolti in uno spazio intimo che rivela diversi scorci e prospettive che fungono da richiamo e collegamento indissolubile tra la propria immagine riflessa negli specchi installati all’interno, e quindi l’io individuale, e l’immagine dell’altro, rappresentato dall’opera posizionata all’interno, dietro la vetrina. Si tratta di una figura umana seduta in maniera rilassata realizzata in argilla e cera, che mostra a livello del cuore, nel centro del petto, una luce che, come un faro guida, fuoriesce dal corpo, attraversando lo spazio e andando a puntare verso il foro della vetrina. Questo fascio di luce attraversa la vetrina e si proietta oltre, verso la strada. Si crea a questo punto un dialogo tra l’io e la collettività, nella necessità di una visione di collaborazione e condivisione estese, di cui la luce diventa metafora. Il gioco di riflessi creato dagli specchi e la luce della scultura, vengono ancora moltiplicati attraverso l’installazione di circa 500 gocce di cristallo screziato, Lacrime, poste intorno alla figura e su vari piani all’interno del negozio e poi ribaditi anche all’esterno, di fronte alla vetrina e oltre, nello spazio pubblico della via Lavagnini, attraverso una proliferazione di altrettanti dispositivi riflettenti, ma questa volta leggeri, quasi volatili, che l’artista sospende tra terra e cielo, riverberando tutto l’intorno di mille luci e colori.

Francesca Banchelli (Montevarchi, 1981)
Artista poliedrica, Francesca Banchelli è affascinata dall’incognita del tempo e del dialogo tra conscio e inconscio; dal rapporto tra esseri umani e con il mondo animale e naturale. La sua pratica indaga la complessità dell’‘evento’ attraverso la sperimentazione di linguaggi diversi: dalla performance alla pittura, dal video al disegno, dalla danza alla scultura, spesso organizzati all’interno di grandi installazioni. Ha studiato all’Accademia di Belle Arti di Firenze (BA) e alla Central Saint Martins di Londra (MA). Nel 2012 vince la residenza “Deutsche Börse Residency Program” – Frankfurter Kunstverein e il primo premio “Portali dello Scompiglio” – Associazione Culturale Dello Scompiglio; nel 2013 ottiene l’“ECF - European Cultural Foundation” e il Premio “Exhibit Program”, MIBACT Creatività Contemporanea (2020). Le sue opere sono state esposte in numerose gallerie, istituzioni e musei tra cui: Paris Internationale (2024); Centro Pecci Prato (2024); Galleria VISTAMARE Milano/Pescara (2024); Triennale Milano (2023-24); Galleria ADA Roma (2023); SPE Tenuta dello Scompiglio (2022); Building Gallery (2022); Galleria Monitor Pereto (2021); Galleria Poggiali (2021); Museo Novecento, Firenze (2020); MANIFESTA 11 - Performance Program Zurigo (2016); MACBA, Barcellona (2015); Sifang Art Museum, Nanchino (2015); TATE Modern, Londra - McAulayGallery (2014); Wilkinson Gallery, Londra (2014); 13° Biennale di Istanbul - Official parallel event (2013); Ambasciata Italiana di Berlino; S1Artspace Sheffield UK (2012); Villa Romana (2008). Vive e lavora a Firenze.

Civico 29, Chiara Bettazzi
Proseguendo, al civico 29, i particolari e le stravaganze di un mondo di mirabilia raccontano e punteggiano un paesaggio di una natura morta, popolato di oggetti tra i più disparati e fantasiosi, pregni di memoria e di visioni. Le installazioni e le fotografie di Chiara Bettazzi sono un salto nella tradizione della pittura fiamminga di natura morta. Si potrebbero citare, altresì, le wunderkammer, le prime strutture museali, gallerie e raccolte di mirabilia e rarità, statue e gemme preziose, animali impagliati e pietre, dipinti e strumenti scientifici, in cui sboccia la sorpresa e in cui si accende lo sguardo curioso dell’osservatore. La stessa meraviglia, lo stesso stupore suscitano i piccoli fori tracciati sulla vetrina che permettono di puntare lo sguardo all’interno delle immagini in miniatura create dall’artista. Anche Chiara Bettazzi interviene all’esterno, sulla strada, dove ha creato un tappeto di ventagli aperti che si lasciano cullare dal vento. Accessorio senza tempo, il ventaglio simboleggia eleganza e raffinatezza, spesso legato alla nobiltà e ai rituali sociali, ma è anche segno di mistero e seduzione, usato per celare sguardi o emozioni e per rappresentare il linguaggio segreto dell’amore. Elemento iconico, lo troviamo spesso rappresentato nelle nature morte dell’artista che con la sua arte interpreta e rinnova codici e simboli da sempre ritratti nella storia dell’arte. Quale simbolo anche di leggerezza, trasparenza e movimento, il ventaglio rappresenta concettualmente la riflessione che l’artista apre sull’identità, pur mantenendo, nel contempo, il suo simbolico valore di auspicio di buona fortuna. Il suo colore bianco, nella ricca installazione di Via Lavagnini, invita alla purezza, alla bellezza ma anche al bianco di una pagina, di una tela.

Chiara Bettazzi (Prato, 1977)
Chiara Bettazzi vive e lavora a Prato. La sua ricerca indaga una duplice dimensione: da un lato lo spazio e i luoghi e dall’altra una poetica dell’oggetto quotidiano, che si sviluppa tra accumulo e scarto. Nel 2015 crea un osservatorio sul recupero dell’archeologia industriale del territorio che prende il nome di Tuscan Art Industry, collaborando con storici dell’architettura, biologi ambientali, artisti, curatori e varie figure professionali. Le sue fotografie e le sue installazioni riflettono sull’ idea della trasformazione e si sviluppano a stretto contatto con il paesaggio industriale e urbano. Spesso i suoi lavori hanno un carattere site-specific, instaurando un dialogo molto forte con lo spazio e la luce naturale dei luoghi. Le sue opere sono presenti in collezioni pubbliche e private, tra cui: La Galleria Nazionale d’arte Moderna e Contemporanea di Roma, Casa Masaccio Centro per L’arte contemporanea, La Collezione Farnesina, Il Museo di Santa Maria della Scala, Castello di Ama e Villa Rospigliosi. Tra le principali mostre ricordiamo: The rose That grew from concrete (2025) Museo San’Orsola Firenze; Panneggi (2025) Lottozero, Prato; Colorescenze, Centro Pecci, Prato (2024); Recap, Z2o Project, Roma (2024); TheTilt of Time, IED, Firenze (2023); Reverse, Tenuta Dello Scompiglio, Lucca (2023); Standby.Installation View, Museo Galileo e Murate Art District, Firenze (2023); Soggiorno, Villa Rospigliosi, Prato (2023); Rampa di Lancio, Peccioli, (2021), Surplace, Galleria Nazionale di Arte Moderna e Contemporanea, Roma (2022), A tutti gli effetti, Villa Romana, Firenze, (2020), Cabinet, progetto per Castello di Ama, Gaiole in Chianti, Siena (2019), Il Mondoinfine: vivere tra le rovine, Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea, Roma (2018).

Civico 36, Marcela Casteñeda Florian
Al civico 36 di via della Noce, Marcela Castañeda Florian torna a calcare il solco dell’essere al mondo in quanto individui sociali oltre che individuali. Il lavoro di Castañeda Florian racconta di storie e visioni che diventano veri frammenti di memoria e dispositivi identitari. Attraverso la riflessione su ciò che siamo, riveliamo o nascondiamo, l’artista ci invita a considerare in modo consapevole la nostra missione di protagonisti e co-autori del presente e del futuro, in un cammino che lascerà sempre le tracce di ciò che è stato. Una denuncia, un monito e anche una speranza che vede l’uomo acceso nel suo essere intimo e profondo, in comunione con le comunità di tutto il mondo e parte attiva di un tutto connesso. In via della Noce, attraverso i fori che aprono lo spazio oltre il velo nero che oscura la vetrina, l’artista ci pone di fronte all’aforisma “Com’è dentro, è fuori”, che come un’eco luminosa, accende le memorie sopite. Un monito di antica saggezza, ripreso, nel nostro secolo, anche da Tiziano Terzani, che suggerisce quanto la nostra realtà esteriore rifletta la nostra interiorità, implicando che la vera ricerca di qualcosa debba partire da sé stessi, poiché ciò che cerchiamo all'esterno lo troviamo già in noi. L'aforisma invita a guardarsi dentro per trovare quelle qualità e quelle verità che poi si "vedranno" nella realtà circostante. All’esterno, a terra, si legge Noi siamo, dipinto in bianco sull’asfalto, un vero e proprio statement attraversabile dai passanti. La frase vuole ricordarci la nostra identità in quanto Esseri Umani, e la nostra responsabilità in quanto siamo protagonisti del nostro destino, della nostra vita, in connessione con gli altri. Quel noi infatti ci accomuna e ci lega gli uni agli altri. Siamo i veri protagonisti e autori della storia che si scrive e si scriverà, siamo esseri umani e nel contempo terra, natura, animali, vita.
L’opera di Marcela Casteñeda Florian continua all’esterno anche in alto, sulle nostre teste dove, tra le lampadine luminose, troveremo una sequenza di frasi, tratte dal manifesto che l’artista ha titolato Noi Siamo, (2019 – oggi), una narrazione progressiva che l’artista offre alla lettura collettiva. Tra i teli del Manifesto, un leggero suono accompagna il passo del visitatore. Si tratta di un suono naturale, generato da piccoli sonagli al vento realizzati in bambù, l’Arundo donax, una pianta che cresce spontaneamente in Italia, resistente e capace di rigenerarsi costantemente, che vuole essere simbolo di resilienza e urgenza.

Marcela Casteñeda Florian (Bogotà, 1992)
Vive e lavora a Firenze. É maestra in arti plastiche (Università Jorge Tadeo Lozano), ha studiato architettura per poi iscriversi a Nuovi Linguaggi Espressivi - Decorazione (Accademia di Belle Arti di Firenze). Nella sua arte riflette sul ruolo di casa e abitare nello sviluppo dell'essere umano, esplora il legame tra corpo e dimora dal punto di vista antropologico e archeologico, pone attenzione ai legami e relazioni tra lo spazio e il suo essere artista e donna. Si definisce come un territorio organico in continua evoluzione, apprendimento, risonanza e trasformazione: visione che permea le sue opere, dove l'abitare diventa un’estensione del corpo. Alcuni dei lavori più recenti: Lo studio al 900- “IMPALESTRA”- Museo Novecento (2025), l'abbraccio del Serpente - “Sinestesie” progetto RIVA - Galleria delle Carrozze (2024), Kosmo - Festival Spacciamo Culture Interdette, San Salvi, La Casa Addosso (2024), Atlas Edge Campolmina (2024). Marcela inaugura inoltre il programma di studi d’artista organizzato da Toast Project Space presso Manifattura Tabacchi, Firenze (luglio - ottobre 2024.

Civico 55, Giovane Ceruti
Al civico 55, Giovane Ceruti ci conduce in un viaggio cosmico, con un’installazione che collega il nostro essere all’universo. Un filo diretto tra l’infinitamente piccolo -il quotidiano, il luogo che viviamo e abitiamo- e l’infinitamente grande -l’universo immenso sopra di noi o che vive in noi. Una vetrina, rivestita di pellicola nera su cui è impressa una frase, funge da ‘geolocalizzatore’ rendendoci partecipi di dimensioni apparentemente inconciliabili. Con i piedi a terra rivolgiamo lo sguardo alle stelle e ci sembra che il nostro corpo si allunghi al punto tale da poterle toccare. La vetrina raccoglie e registra il nostro passaggio lì, proprio in quel luogo, in quel momento, in quella occasione, ma al contempo ci ricorda di essere cittadini del mondo e, senza separazione, di abitare l’universo, di essere particella. Si tratta di un progetto che mette a fuoco la nostra propria singolarità, quella di ogni essere vivente, nello spazio e nel tempo, tra il limite e l’illimitato. Un invito a indossare questa consapevolezza, ricordandola a ogni passo, magari fotografandosi davanti a quella vetrina così eloquente. Scopriremmo, forse, che un filo sottile, invisibile ci accomuna tutti, in un modo o nell’altro. Siamo tutti, indistintamente, cittadini locali e universali. I nostri linguaggi raccontano della nostra singolarità, ma nel contempo parlano di una modalità collettiva, che accomuna tutti, da est a ovest, da nord a sud. Un invito a sentirsi molecole di vita universale, che si manifesta in terra come nello spazio infinito, e anche a sentirsi uno, noi e gli altri, insieme.
Lo stesso spazio di aggregazione e riflessione viene innescato anche fuori, all’esterno, dove una moltitudine di sculture in poliuretano colorato, raccontano di personaggi fantastici, figure mitologiche o delle tradizioni popolari e religiose. Un mondo di “eroi” antichi e moderni che popolano le fantasie, i giochi e i ricordi di grandi e piccoli, in un processo poetico e della fantasia che dal mondo esterno, la strada, arriva a parlare di un mondo di frammenti e memorie personali.

Giovane Ceruti (Firenze, 2000)
Giovane Ceruti è un artista attivo nel campo delle arti visive. Nato a Firenze nel 2000, si è formato nella stessa città, dove nel 2025 ha conseguito il diploma accademico di secondo livello in Pittura - Nuovi Linguaggi Espressivi presso l’Accademia di Belle Arti. La sua ricerca artistica prende forma attraverso l’utilizzo di diversi mezzi espressivi, con una ricorrente attenzione al linguaggio. Nei suoi lavori, l’ironia diventa filtro per osservare e attraversare le contraddizioni del presente, generando spazi di ambiguità e riflessione. Gli interventi che esegue mirano il più delle volte a mettere in discussione le strutture narrative comunicative della realtà, aprendo nuove possibilità di lettura del quotidiano. Ha recentemente esposto in spazi e istituzioni quali il MLAC - Museo Laboratorio di Arte Contemporanea di Roma, il Museo Novecento di Firenze, Spazio K a Prato. Ha inoltre partecipato a varie fiere d’arte contemporanea come Arte Fiera 48 di Bologna, Cremona Art Fair, Flashback Habitat di Torino, e ha preso parte a programmi di residenza artistica, tra cui Cantieri Montelupo 2024, a cura di Cristian Caliandro.

fonte: ufficio stampa Boule de Niege

Ultimo aggiornamento

Ultimo aggiornamento: 04/11/2025 14:17

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